«La cooperazione allo sviluppo deve essere in grado di agire in modo rapido e flessibile, con una prospettiva sul lungo periodo»
Alla fine di marzo l’Ambasciata di Svizzera in Nepal è riuscita a far sì che diversi turisti svizzeri e di altri Stati europei potessero raggiungere Kathmandu per imbarcarsi su un aereo diretto in Europa. Non meno intenso è l’impegno della Svizzera per contrastare le conseguenze dell’epidemia di COVID-19, agevolato – secondo Elisabeth von Capeller, ambasciatrice a Kathmandu – dalla pluriennale presenza della Svizzera e dalla stretta collaborazione con il Paese himalayano. Questi due fattori avevano già consentito alla Svizzera di fornire un aiuto efficace al Nepal anche nella ricostruzione dopo il terremoto del 2015.
L’ambasciatrice di Svizzera in Nepal Elisabeth von Capeller consegna al ministro nepalese della salute e della popolazione 30 000 kit diagnostici per il COVID 19 arrivati da Singapore. © DFAE
Quali sono le principali sfide per il Nepal nella lotta contro il COVID-19?
Il ministro delle finanze ripete in continuazione che «quella del COVID-19 non è solo una crisi sanitaria, ma anche una crisi sociale ed economica che colpisce le istituzioni e l’intero sistema. Non è una crisi umanitaria e le nostre risposte devono pertanto essere adeguate». In sostanza, la crisi socio-economica deve essere affrontata subito e non si può prescindere dalle istituzioni esistenti.
Cosa significa concretamente per il Paese?
Il Nepal ha uno dei sistemi sanitari più deboli del mondo e l’unica cosa che può fare, in realtà, è cercare di fermare la diffusione del virus con misure preventive. Il Paese non è sufficientemente attrezzato per curare le persone infette: per esempio dispone solo di circa 100 letti in terapia intensiva per oltre 30 milioni di abitanti. Il blocco totale, in vigore da cinque settimane come misura per mantenere al minimo la diffusione, sta già producendo gravi conseguenze e sta facendo sprofondare molte persone in povertà. Milioni di migranti nepalesi stanno inoltre aspettando nei Paesi del Golfo, in India e in Asia orientale di poter rientrare in patria. Molti di loro hanno contratto il virus e prima di poter raggiungere i loro villaggi – senza lavoro né reddito – dovrebbero tutti essere messi in quarantena. È un compito difficilissimo. I trasferimenti privati di denaro, le rimesse, rappresentano il 30 per cento del prodotto interno lordo (PIL): se vengono meno, le conseguenze macroeconomiche e sociali saranno devastanti.
Le «istituzioni e l’intero sistema» sono in grado di assorbire questo colpo?
Il giovane federalismo nepalese sta dimostrando i suoi effetti positivi: le persone possono già vederli e percepirli. Le province e i governi locali stanno facendo un lavoro fantastico: organizzano le quarantene, distribuiscono cibo, forniscono assistenza sociale, effettuano il tracciamento ecc.
Da dove può partire la Svizzera per fornire un aiuto concreto e rapido?
Abbiamo reagito tempestivamente e senza indugi Da una parte abbiamo subito adeguato tutti i nostri progetti alle mutate esigenze: per esempio, abbiamo aiutato a mettere in piedi call center per i servizi di consulenza agricola e abbiamo sostenuto le linee di assistenza per le donne vittime di violenza. Ci siamo dati da fare anche a favore dell’«home schooling» per gli apprendisti o della protezione e della distribuzione di aiuti alimentari per i migranti nel Golfo.
Nell’ambito della nostra strategia, abbiamo inoltre subito avviato nuove forme di aiuto, per esempio relativamente a sistemi di smaltimento dei rifiuti medici e delle acque di scarico negli ospedali dove vengono curati pazienti affetti da COVID-19 o ai preparativi del Governo per il rimpatrio dei migranti. Abbiamo sostenuto organizzazioni per i diritti umani che monitorano che anche le persone discriminate ricevano sostegno e ci siamo adoperati a favore di aiuti finanziari per le PMI. Insieme ai governi provinciali stiamo sviluppando un sistema di voucher per i contadini affinché possano ricevere aiuti agricoli. Infine, abbiamo subito acquistato anche materiale medico – termometri, migliaia di dispositivi di protezione e anche 30 000 test diagnostici per il COVID-19 – che abbiamo consegnato al Governo centrale e alle province. A noi preme rafforzare le strutture e le istituzioni esistenti e non sostituirci ad esse.
La Svizzera realizza diversi programmi e sostiene progetti in Nepal. Non sono di intralcio alla flessibilità nel rispondere al COVID-19? Oppure sono proprio questi a rendere possibile un aiuto efficace?
Penso che dovremmo superare la narrativa secondo cui «l’intervento immediato è aiuto umanitario» e «l’azione sul lungo periodo è cooperazione allo sviluppo». Per me, le nostre azioni immediate – l’acquisto di materiale medico e test o l’organizzazione dello smaltimento dei rifiuti medici negli ospedali – sono anche interventi sistemici, che però devono essere realizzati rapidamente. La cooperazione allo sviluppo deve essere in grado di agire in modo rapido e flessibile, con una prospettiva sul lungo periodo. È ciò che abbiamo sempre fatto. Negli ultimi decenni il Nepal ha attraversato una guerra civile, trasformazioni politiche, terremoti e poi il passaggio del sistema statale a una struttura federale. Il Paese è quindi in uno stato di cambiamento permanente. E abbiamo sempre adattato i nostri programmi all’insegna del principio «take the context as starting point» (il contesto è il punto di partenza). È il nostro consueto modo di procedere.
Ambasciatrice von Capeller, può ora applicare alla lotta contro il COVID-19 l’esperienza maturata nell’aiuto alla ricostruzione dopo il terremoto in Nepal?
Sì, ci sono state esperienze importanti che tornano utili nel contrastare questa crisi. Da un lato, dopo il terremoto del 2015 abbiamo visto che, soprattutto all’inizio, sono stati realizzati molti interventi di aiuto in aree dove l’accesso era più facile, e non dove era più necessario. Di conseguenza, ancora una volta, purtroppo, i gruppi discriminati hanno beneficiato in modo nettamente inferiore degli aiuti, perché molte nuove organizzazioni non conoscevano il contesto. Il mancato coordinamento ha inoltre portato anche a sovrapposizioni degli interventi. Ma poi – e questo è esemplare – il Governo ha preso in mano la responsabilità della ricostruzione e ha garantito il rispetto degli standard e la qualità. Alla fine del 2020, dopo soli cinque anni, il Nepal avrà completato quasi al 90 per cento la sua ricostruzione. Naturalmente è straordinario! Il Paese dispone oggi di strutture che gli permetteranno di rispondere meglio ad altre eventuali catastrofi naturali. Anche nella lotta contro questa pandemia dobbiamo rafforzare le strutture nazionali, e non eluderle. Ora i governi locali e i partner di sviluppo sono consapevoli del fatto che non possono trascurare i gruppi discriminati nell’erogazione di aiuti sociali. Tuttavia, è importante anche oggi tenere d’occhio la situazione.
Il DFAE ha quasi portato a termine le operazioni di recupero con voli charter. Ci sono ancora viaggiatori svizzeri in Nepal? In caso affermativo, che tipo di assistenza ricevono dall’ambasciata?
Ci sono cittadine e cittadini svizzeri – con i quali siamo in regolare contatto – che lavorano qui e vogliono rimanere nel Paese. Poi ci sono turisti che lo vogliono lasciare. La scorsa settimana abbiamo organizzato altri viaggi in bus che hanno portato oltre cento persone a Kathmandu, tra le quali anche undici di cittadinanza svizzera che il 2 maggio hanno potuto prendere un volo charter francese. Resta ancora qualche caso consolare per il quale siamo alla ricerca di soluzioni con la Direzione consolare alla Centrale a Berna.
Alla fine di marzo Lei e la Sua ambasciata vi siete dati molto da fare per far sì che diversi turisti provenienti dalla Svizzera e da altri Stati potessero ritornare in Europa. Come è andata la cooperazione con gli altri Paesi?
È stata un’impresa incredibile. Siamo riusciti a far partire, con voli organizzati dalla Germania, dalla Francia e dalla Repubblica Ceca, circa 90 svizzeri e svizzere che erano sparsi un po’ per tutto il paese. Abbiamo dovuto provvedere al loro trasporto in autobus e con un volo nazionale. Quindi, durante il blocco totale, ci siamo occupati di ottenere permessi, informare le autorità e così via. Il coordinamento con l’UE e poi la cooperazione concreta con la Germania, la Repubblica Ceca e la Francia sono stati eccellenti e siamo molto grati ai nostri partner. Certamente hanno contribuito i buoni rapporti che abbiamo tra di noi, qui, sul posto. Per fortuna avevo ancora una scorta sufficiente di praline e di buon vino svizzero da regalare in segno di ringraziamento.
L'impegno della Svizzera in Nepal
La Svizzera sostiene lo sviluppo democratico del nuovo Stato federale in Nepal. Tramite la DSC, la Svizzera sostiene, a livello municipale, la creazione di spazi di consultazione e partecipazione destinati ai cittadini. Si adopera anche a favore del rafforzamento delle competenze dei dipendenti dell’amministrazione pubblica e degli eletti per garantire la qualità dei servizi alla popolazione e promuove la partecipazione delle donne, dei gruppi discriminati e dei lavoratori migranti perché possano esercitare i loro diritti e responsabilità. La DSC si impegna inoltre per consolidare il dialogo tra le autorità e la popolazione e migliorare la gestione delle finanze pubbliche.
La DSC sostiene le donne e gli uomini, in particolare quelli appartenenti a gruppi svantaggiati, nello sviluppo delle competenze professionali che permettono loro di trovare un lavoro e aumentare il loro reddito. Inoltre incoraggia la popolazione nepalese a partecipare alla definizione delle politiche nei settori dell’agricoltura, della formazione professionale e della costruzione delle infrastrutture. La DSC incoraggia lo sviluppo di competenze professionali attraverso il modello di apprendistato, soprattutto tra i giovani.
Con il suo appoggio, si realizzano infrastrutture di trasporto e sistemi di irrigazione efficaci che consentono di rafforzare la sicurezza alimentare per più di un milione di nepalesi, il 60% dei quali appartiene a gruppi svantaggiati e il 42 % è costituito da donne.